“ma ancora pende sopra il capitello florido, al sole e al vento come un grande nido, il pergamo ricco di ghirlande ignude, o Michelozzo, o Donatello!”
(Gabriele D’annunzio, Elettra, Le città del silenzio, III)
Duomo di Prato
Gli abitanti di Prato possiedono una reliquia, cui sono molto legati, la Cintola della Madonna, che si diceva fosse stata portata da un crociato proveniente dalla Terrasanta. Per conservarla in sicurezza, fino dal Trecento, venne realizzata a ridosso della controfacciata della Pieve di Santo Stefano, attuale duomo, una cappella, tutta affrescata da Agnolo Gaddi e impreziosita da una splendida Madonna col Bambino di Giovanni Pisano (inizi secolo XIV).
L’accesso al reliquiario dove è collocata la cintola è ancora oggi regolato da un rigido cerimoniale che prevede l’intervento congiunto dell’autorità religiosa e di quella civile: vescovo e sindaco possiedono le chiavi e insieme prelevano la cintola per esporla ai fedeli in occasione di particolari festività.
Dove avviene l’esposizione? Ecco il colpo di genio.
Davanti alla facciata romanica della chiesa fu costruita una seconda facciata, lasciando tra le due un’intercapedine, dove fu realizzata una scala cha sale in diagonale fino a raggiungere due porte che si aprono una sulla facciata, l’altra sulla fiancata destra.
E qui interviene l’estro creativo di Donatello e del suo socio Michelozzo.
I due costruiscono un’opera, unica per forma e destinazione, un “grande nido”, sospeso sullo spigolo della facciata, che collega le due porte in modo che il vescovo possa uscire da una porta, e rientrare dall’altra, avendo a disposizione un percorso aereo di duecentosettanta gradi. Può così esibire la reliquia al pubblico dei fedeli, riuniti nella piazza sottostante, in assoluta sicurezza, permettendo una buona visione. La costruzione di tutto il complesso è durata dieci anni (1428-1438) soprattutto a causa di una lunga assenza di Donatello e del sovrapporsi nello stesso periodo di altre commissioni.
Il “capitello florido” si trova alla base della struttura che si apre a sostegno del “nido”. Si tratta di una scultura in bronzo, un ideale capitello corinzio, completamente rinnovato grazie all’inserimento di figure e di esuberanti motivi ornamentali. I due puttini ignudi che siedono alla base del capitello si ispirano all’antico, a divinità fluviali che Donatello poteva aver visto in un suo recente soggiorno romano. Dal centro, tra corolle di fiori e puttini si dipartono due grandi volute che contengono a loro volta due figure di ignudi. A completare uno schema così originale ecco un putto che si affaccia dall’alto, destinato a sostenere, con le grandi ali distese sull’abaco, il primo anello della struttura marmorea.
Per molto tempo attribuito a Michelozzo, gli studiosi ora sono più propensi a ritenerlo opera di Donatello per la straordinaria invenzione e la vivacità del modellato.
“Il pergamo ricco di ghirlande ignude” è in gran parte opera di Donatello. Ignudi, o quasi, sono i putti che danzano nelle sette formelle di marmo, interrotte da coppie di colonnine, su un fondo rivestito di mosaico dorato, oggi sopravvissuto solo in parte.
Tra le più belle, generalmente ritenuta totalmente di mano di Donatello, vediamo la prima formella a partire dalla fiancata del duomo. Il rilievo è molto affollato.
Ci sono quattro putti che danzano e un quinto che suona per loro, tutto in quello spazio ridotto e poco profondo. Al centro il suonatore se ne sta in punta di piedi ed emerge appena, alzando il suo strumento musicale, che fuoriesce dalla formella. Gli altri sono impegnati in una danza. La presa delle mani e le braccia alzate a fare ponte testimoniano di un’antica danza che vedeva i partecipanti alternativamente impegnati a passare sotto il ponte e quindi a rinnovare la posa per i compagni che sopraggiungevano.
Prima ancora di soffermarmi sulla qualità del rilievo, mi piace riflettere sulla mirabile fantasia dell’invenzione. Che meraviglia i moti intrecciati di questi bambini! Tante teste e piedi, e braccia, e mani da articolare nello spazio ristretto, che sembra dilatato in profondità, grazie ad alcuni accorgimenti. In questa formella la circolarità del movimento è suggerita da quel putto di spalle che si allontana, e da quello di sinistra che si affaccia, tutto sorridente, in tempo per afferrare la mano del compagno.
Per realizzare una composizione così mossa e varia Donatello utilizzò la tecnica dello stiacciato, un processo scultoreo che permette di graduare la posizione delle figure nello spazio grazie a un rilievo poco profondo. Si tratta a volte dello spessore di pochi millimetri che intercorre tra le parti più sporgenti e quelle più lontane, che sembrano appena disegnate.
Vediamo la formella numero cinque, con quattro danzatori e un suonatore con il suo tamburello. Anche qui il danzatore di destra si sta allontanando verso il fondo e noi percepiamo il suo movimento: è tutto proiettato in avanti, mentre la sua gamba sinistra sta ancora sfiorando la caviglia del compagno in primo piano. Si incastrano le teste e i piccoli corpi, in parte coperti dai moti degli altri. Alcuni vestono tuniche di un tessuto sottile, che aderisce al corpo ad ogni movimento, producendo un effetto pittorico.
La formella numero quattro, posta al centro del pulpito e pertanto molto esposta “al sole e al vento”, è una delle più felici per il naturale fluire dei putti in moti armoniosi, ma purtroppo è una delle più deperite.
Gli originali dei delicati marmi sono attualmente conservati nel contiguo Museo dell’Opera del Duomo, dopo un lungo restauro, a cura dell’Opificio delle Pietre Dure. Ne dà conto il volume Donatello restaurato. I marmi del pulpito di Prato, a cura di Anna Maria Giusti (Maschietto & Musolino, 2000) Anche il capitello è stato recentemente messo al sicuro nel Museo.
Riferimenti ed opere citate:
Gabriele D’annunzio, Elettra, Le città del silenzio, III
Donatello, Michelozzo, Pulpito di Prato, 1428 - 1438
Donatello restaurato. I marmi del pulpito di Prato, a cura di Anna Maria Giusti (Maschietto & Musolino, 2000)
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