Hans Holbein il Giovane, La famiglia dell’artista, 1528, Kunstmuseum, Basilea
Alcuni anni fa a Basilea, nel Kunstmuseum.
Mi ero soffermata a guardare La famiglia dell’artista, di Hans Holbein il Giovane (Augusta, circa 1497-98, Londra 1543). Avevo in casa, acquistata su una bancarella, una vecchia stampa derivata da questo dipinto. Conoscevo bene quella donna triste e quei bambini compassati. Mi piaceva la dolce armonia che scaturiva da quel gruppo, qualcosa che rievocava le giovanili Madonne di Raffaello, dove la Madre stringe a sé il Figlio insieme a San Giovannino. Guardandolo ora da vicino, mi sembrava di cogliere negli occhi della madre tracce di pianto e nello sguardo del figlio Filippo quel fare interrogativo che hanno i bambini quando vedono un adulto turbato. Anche la piccola Caterina tra le braccia della madre aveva una boccuccia piegata all’ingiù, come fosse imbronciata. Mi chiedevo quali fossero i sentimenti del pittore, che era da poco tornato dall’Inghilterra (1528) e si era ritrovato in una città agitata da controversie religiose, dove era difficile lavorare.
Poi mi voltai e proprio nella parete di fronte vidi un quadro che non conoscevo e che mi lasciò sbalordita: raffigurava un uomo morto disteso in un basso loculo (cm. 30,5x200). Come negli incubi peggiori si sogna a volte di essere chiusi in una cassa, così quel pover’uomo era disteso in uno spazio senz’aria; eppure sembrava che gli restasse ancora qualche spirito vitale: un occhio aperto, il volto contratto in una smorfia orribile, una mano che muoveva il dito medio facendo così increspare il lenzuolo sottostante.
Hans Holbein il Giovane, Cristo nel sepolcro, 1521, Kunstmuseum, Basilea
Lasciai quest’immagine, così inusuale per un Cristo nel sepolcro, e mi ripromisi di documentarmi.
In effetti non fu difficile trovare quella che, a mio parere, è una delle più belle pagine mai scritte su di un’opera d’arte. Ecco alcuni brani dall’Idiota (parte terza, VI) dove Dostoevskij descrive quel quadro di Basilea, che, secondo la testimonianza della moglie, l’aveva tanto turbato quando l’aveva visto durante il loro soggiorno nella città svizzera nel 1867.
Il protagonista del romanzo ripensa a un dipinto che aveva visto poco prima, una copia fedele di quello di Holbein, che aveva suscitato in lui una strana inquietudine:
"É vero che il viso era quello di un uomo appena tolto dalla croce e cioè conservava in sé molto di vivo, di caldo; nessun tratto aveva avuto il tempo di irrigidirsi tanto che sul viso del morto traspariva anche la sofferenza, come se egli la sentisse tuttora (questo era stato colto assai bene dall’artista); quel viso però non era stato risparmiato per nulla: era la natura stessa; e in verità così deve essere il cadavere di un uomo, chiunque egli sia, dopo simili strazi…….
Nel quadro il viso era orrendamente sfigurato dai colpi, enfiato, con tremendi lividi sanguinolenti e gonfi, occhi dilatati, pupille stravolte; il bianco degli occhi, vasto, scoperto, luceva in un certo riflesso vitreo, cadaverico….."
Dostoevskij prosegue domandandosi come mai i suoi seguaci poterono credere, vedendo il loro Maestro in quelle condizioni, che quel martire sarebbe risorto.
Gli uomini che circondavano il morto, dei quali non uno figurava nel quadro, dovettero sentire in quella sera, che aveva annientato di colpo tutte le loro speranze e forse anche la loro fede, un’angoscia e una costernazione terribile.
Non è il caso di aggiungere parole a questa descrizione.
C’è però un punto su cui vorrei soffermarmi: quell’appena, che nel testo da me consultato è riportato in evidenza. A Dostoevskij quel Cristo sembrava appena tolto dalla croce tanto che “conservava in sé molto di vivo”. Cito questi particolari perché, qualche tempo dopo, mi sono imbattuta in un libro molto suggestivo: Il più forte. Visioni del Messia risorto, di Francesco Saracino (Ed Insieme, 2012).
L’autore, nel contesto di un’ampia ricerca sull’iconografia del Risorto, si sofferma sul dipinto di Holbein ipotizzando che non si tratti di un Cristo morto, ma di un corpo in procinto di risvegliarsi.
La testa d’improvviso si è rivolta verso di noi, tanto che due ciocche di capelli sono ricadute sul lenzuolo; un occhio, l’unico visibile, è socchiuso, la bocca aperta sembra avere fame d’aria, una mano tasta il pavimento del loculo, e infine, come nota Saracino, un lieve gonfiore all’inguine farebbe pensare a un’erezione. Secondo l’autore sono tutti segni della vita che sta ritornando in quel corpo straziato sulla croce.
L’argomentazione d Saracino continua ricordando che l’apostolo Giovanni (19, 39-40) aveva parlato della sepoltura di Cristo, avvenuta secondo un rituale consolidato, che prevedeva, anche se non detto esplicitamente, che occhi e bocca del defunto venissero chiusi.
Potremmo dunque trovarci in presenza del momento in cui il primo soffio di una nuova vita sta animando il corpo di Cristo?
Non sono in grado di dare una risposta. Mi piaceva segnalare la possibilità che l’opera d’arte si presti a diverse letture, anche contrastanti. Una cosa è certa: che lo strazio inflitto a quel povero corpo sia stato colto assai bene dall’artista per usare le parole del grande scrittore russo.
Riferimenti ed opere citate:
Hans Holbein il Giovane, La famiglia dell’artista, 1528, Kunstmuseum, Basilea
Hans Holbein il Giovane, Cristo nel sepolcro, 1521, Kunstmuseum, Basilea
Fëdor Dostoevskij, L'Idiota, 1869
Il più forte. Visioni del Messia risorto, di Francesco Saracino (Ed Insieme, 2012)
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